Il rapporto di lavoro del pubblico dipendente è contraddistinto da un peculiare regime di incompatibilità che preclude la possibilità di svolgere attività commerciali, industriali, imprenditoriali, artigiane e professionali fintantoché è in essere il rapporto con il datore pubblico.
L’obbligo di esclusività (non derogabile dalla contrattazione collettiva) è sancito dall’art. 53, co. 1 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Testo Unico Pubblico Impiego), il quale sancisce un’estensione generale a tutti i dipendenti pubblici della disciplina delle incompatibilità dettata dal testo unico degli impiegati civili dello Stato.
Per i dipendenti pubblici con rapporto di lavoro a tempo parziale, invece, è richiamata esclusivamente la disciplina del D.P.C.M. n. 117 del 1989 e della legge n. 662 del 1996, la quale prevede una serie di deroghe (attività liberalizzate o previamente autorizzabili) al regime delle incompatibilità.
L’art. 53 del citato T.U. Pubblico Impiego dispone la permanenza del regime previsto dagli artt. 60-65 del d.P.R. n. 3 del 1957 per gli impiegati civili dello Stato; in particolare, l’art. 60 stabilisce che “L’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in Società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del ministro competente”. Il divieto di assunzione di cariche in società costituite a fine di lucro non si applica alle società cooperative (art. 61), mentre regole peculiari sono dettate dall’art. 62 con riferimento alle società a partecipazione pubblica.
La giurisprudenza contabile (Corte dei conti, sez. giur. Liguria, sent. 22.11.2019, n. 201) ha chiarito che non presenta carattere di incompatibilità l’assunzione di cariche in società costituite per il godimento di beni immobili poiché l’attività da esse svolta non assume i tratti propri dell’attività produttiva, né di quella commerciale, anche in presenza di attività gestionali e di valorizzazione lucrativa del patrimonio, a meno che i beni diventino il mezzo per svolgere un’attività d’impresa (c.d. beni strumentali).
Questa incompatibilità assoluta, se da un lato vieta al pubblico dipendente di assumere le cariche sociali di amministratore, consigliere e sindaco nelle società costituite a fini di lucro, dall’altro lato permette, senza la necessità di alcuna autorizzazione, la partecipazione azionaria in quelle stesse società (Circolare 18 luglio 1997, n. 6/1997, Presidenza del Consiglio – Dip. Funzione Pubblica ).
La partecipazione a società agricole a conduzione familiare è da ritenersi possibile, purché l’impegno sia modesto, non abituale o continuato e, comunque, non vi sia una trasformazione industriale dei prodotti agricoli.
Ferme la responsabilità disciplinare e erariale del dipendente pubblico che assume cariche sociali incompatibili, al fine di comprendere quali siano le conseguenze in cui incorre la società che conferisce a un dipendente pubblico una carica sociale in violazione del regime delle incompatibilità, rileva l’art. 53, co. 9, del T.U. Pubblico Impiego, il quale dispone che “Gli enti pubblici economici e i soggetti privati non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. In caso di inosservanza si applica la disposizione dell’articolo 6, comma 1, del decreto legge 28 marzo 1997, n. 79, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140, e successive modificazioni ed integrazioni. All’accertamento delle violazioni e all’irrogazione delle sanzioni provvede il Ministero delle finanze, avvalendosi della Guardia di finanza, secondo le disposizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni ed integrazioni. Le somme riscosse sono acquisite alle entrate del Ministero delle finanze”.
Il citato art. 6, co. 1, del decreto legge n. 79/1997 prevede che: “Nei confronti dei soggetti pubblici e privati che non abbiano ottemperato alla disposizione dell’articolo 58, comma 6, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, o che comunque si avvalgano di prestazioni di lavoro autonomo o subordinato rese dai dipendenti pubblici in violazione dell’articolo 1, commi 56, 58, 60 e 61, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, ovvero senza autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, oltre alle sanzioni per le eventuali violazioni tributarie o contributive, si applica una sanzione pecuniaria pari al doppio degli emolumenti corrisposti sotto qualsiasi forma a dipendenti pubblici”.
Secondo un’interpretazione consolidata (Cass., sez. lav., sent. 26.11.2019, n. 30869), per l’irrogazione della sanzione nei confronti della società è sufficiente la sussistenza della colpa lieve.
Invero, “sussiste a carico del datore di lavoro, con relativo onere della prova, senza che ne siano tipizzate le modalità, un obbligo di verifica delle condizioni che escludono la richiesta di autorizzazione, non potendosi lo stesso rimettere unicamente a quanto eventualmente dichiarato sponte sua dal lavoratore. Né ciò contrasta con quanto previsto dal D.Lgs. n. 689 del 1981, art. 3. Come questa Corte ha avuto modo di affermare (Cass., n. 19759 del 2015), in tema di violazioni amministrative, l’errore sulla liceità del fatto giustifica l’esclusione della responsabilità solo quando risulti inevitabile, occorrendo a tal fine un elemento positivo, estraneo all’autore dell’infrazione, idoneo ad ingenerare in lui la convinzione della stessa liceità, oltre alla condizione che, da parte sua, sia stato fatto tutto il possibile per osservare la legge e che nessun rimprovero possa essergli mosso, così che l’errore sia stato incolpevole, non suscettibile, cioè, di essere impedito dall’interessato con l’ordinaria diligenza. Nella specie, tale obbligo, afferma la Corte d’Appello, con statuizione che non è stata adeguatamente censurata, non è stato adempiuto, atteso che non risultavano richieste specifiche dichiarazioni ai soggetti cui si conferiva l’incarico, né assunte informazioni in altro modo” (Cass., sez. lav., sent. 14.12.2016, n. 25752).
Dunque, prima del conferimento di incarichi sociali, le società costituite a scopo di lucro dovranno svolgere un vaglio sulla sussistenza di eventuali incompatibilità dei soggetti interessati che non potrà essere limitato alla mera ricezione di un’autocertificazione da parte di questi ultimi.
Contributo a cura dell’avv. Francesco Giuseppe Roncoroni